DOSSIER

ACCA LARENZIA

"Il tempo non scalfisce

il ricordo dei camerati caduti"

 

E' difficile parlare di chi non c'è più, di chi ha dato la vita per quell'ideale in cui tutti noi crediamo, di chi è stato capace di sacrificare la propria giovinezza in nome di qualcosa di più alto, di più luminoso, di più vero.

E' difficile perché qualunque parola sembra inappropriata se usata per descrivere il gesto di ragazzi come noi, che per il solo fatto di aver scelto "la strada sbagliata", quella più difficile, sono morti a vent'anni.

E' difficile perché di fronte al sacrificio estremo spesso ci si sente estremamente piccoli e inadeguati e qualunque cosa si dica o si faccia sembra sciocca. E' difficile, ma noi vogliamo provarci lo stesso, seguendo quel filo rosso che ci lega a chi ha percorso prima di noi la strada sulla quale stiamo camminando.

Quello che vogliamo dire a Franco, Francesco, Stefano ed Alberto, e a tutti quelli che sono con loro in quella verde valle lontana e senza tempo, è che noi ci siamo. Con tutte le nostre debolezze, con la stanchezza e lo scoraggiamento che a volte si fanno davvero pesanti, con i piccoli sacrifici di ogni giorno, che non sono niente se paragonati al loro.

Ci siamo, e continuiamo, nel nostro mondo e nel nostro tempo, a percorrere la strada che prima di noi ha visto i loro passi svelti attraversare la vita, consapevoli del fatto che abbiamo scelto di vivere un ideale che va oltre il tempo e oltre la storia, un ideale che ha vissuto in loro e che ora vive in noi.

Ci siamo, e sappiamo che in ogni semplicissimo atto della militanza di ogni giorno, come un'affissione, un volantinaggio, una riunione, un'assemblea, ci sono con noi anche loro.

C'è chi il sangue è chiamato a versarlo tutto insieme e chi goccia a goccia: quando ci sentiamo stanchi e scoraggiati, quando ci assalgono i dubbi sulla scelta della militanza, sarà sufficiente pensare a chi, ragazzo di vent'anni come noi, ha versato il suo sangue tutto insieme e ci ha lasciato il dono più prezioso che si possa mai ricevere: un esempio da seguire.

7 gennaio 1978

Come spesso accadeva in quegli anni, la giornata stava trascorrendo in un clima abbastanza teso. Alle 18.20 circa un gruppo di militanti del Fronte della Gioventù esce dalla sezione di Acca Larenzia per andare a fare un volantinaggio. Immediatamente un commando di 5 o 6 persone (l'attentato sarà in seguito rivendicato dai Nuclei Armati per il contropotere territoriale) apre il fuoco contro i ragazzi del Fronte.

Franco Bigonzetti è il primo ad essere colpito. Un altro ragazzo, ferito ad un braccio, riesce a rientrare in sezione e si chiude dentro. Gli altri si gettano a terra, ma il commando spara di nuovo e colpisce Francesco Ciavatta, che stava tentando di salire sulle scalinate a fianco del portone della sezione. Cade a terra. Morirà poco dopo in ambulanza. Alla notizia dell'agguato, costato la vita a due ragazzi, a due militanti, davanti alla sezione di Acca Larenzia si raduna una gran folla: forze dell'ordine, membri del partito, giornalisti, ma soprattutto giovani, i camerati dei ragazzi uccisi, forse quelli colpiti più da vicino da quel gesto folle.

La tensione è altissima. Un giornalista ed un cameraman, dopo aver ripercorso le tappe dell'agguato, si fermano accanto ad una macchia di sangue e uno dei due vi getta distrattamente sopra un mozzicone di sigaretta. I ragazzi presenti reagiscono in malo modo: i due vengono malmenati e ne nascono tafferugli e scontri. I carabinieri lanciano lacrimogeni sui manifestanti.
Il capitano Sivori, impugnata la sua pistola, cerca di sparare nel mucchio dei manifestanti, ma l'arma si inceppa. Si fa dare allora la pistola di un suo sottoposto, si inginocchia e prende la mira: questa volta i colpi partono, e viene colpito Stefano Recchioni, che morirà dopo 48 ore di agonia (9 gennaio).

"(…) Mentre siamo in riunione arriva la notizia che nella sede di Acca Larenzia i compagni hanno sparato di nuovo. (…) Quella sera del 7 gennaio, presi dalla rabbia per la morte di Franco Ciavatta e Stefano Bigonzetti i ragazzi iniziano gli slogan di protesta contro carabinieri e celere che sono lì davanti alla sezione per prevenire incidenti. Quella loro presenza di controllo è inaccettabile. (…). Il tono delle grida aumenta e dalla parte dei carabinieri iniziano a sparare lacrimogeni. La distanza tra noi missini e i carabinieri è minima e non si capisce perché ci sparino addosso. Indietreggio. Mi giro e vedo a terra quel ragazzo biondo con cui stavo parlando poco prima. E' Stefano Recchioni e torno indietro per aiutarlo a rialzarsi. Gli metto una mano dietro la testa per sollevargliela e gli occhi azzurri gli roteano all'indietro. Sulla mano ho una strana sensazione di caldo: provo a tirarlo su, ma quando la macchia di sangue si allarga sui miei jeans, capisco che non è stato colpito da un lacrimogeno ma da un proiettile alla nuca. Da una parte i carabinieri, dall'altra chi ha cercato riparo verso la sezione e si aspetta un'altra carica. Sulla strada è rimasto il corpo di Stefano che continuo a tenere tra le braccia. Non darà più segni di vita e il mio grido di aiuto non basterà a fermare quel sangue e a salvargli la vita. Non verso nessuna lacrima, ma niente da quel momento sarà più come prima".

da "Nel cerchio della prigione" - Francesca Mambro

10 gennaio 1979

E' passato un anno dalla strage di Acca Larenzia e i colpevoli sono ancora liberi di colpire impunemente. Contro questo stato di cose il Fronte della Gioventù ha organizzato varie manifestazioni di protesta in diversi punti della città.

Gli animi sono caldi e la situazione è molto tesa. Nel quartiere Centocelle l'obiettivo della manifestazione è una sede della DC, scelta come simbolo del potere politico dominante, di quel sistema da combattere in quanto fonte di tante angherie ed ingiustizieTra i ragazzi presenti c'è Alberto Giaquinto, un ragazzo di 17 anni. Al termine della manifestazione, che si è svolta senza incidenti, sopraggiunge una macchina civile della polizia, dalla quale scendono due agenti in borghese.

Uno di loro, Alessio Speranza, si inginocchia e prende la mira, sparando sul gruppo di ragazzi che si stavano allontanando: ad essere colpito è Alberto, che viene lasciato per venti minuti in agonia sull'asfalto.

La versione ufficiale è che l'agente aveva sparato per legittima difesa, in quanto Alberto era armato e stava per esplodere dei colpi verso i due poliziotti: vari testimoni negano però questa versione, affermando che Alberto non era armato; inoltre, come da referto medico, il colpo che lo ha ucciso proveniva dalle sue spalle, quindi non era possibile, ammesso che fosse armato, che stesse per sparare.

L'assassino di Alberto, come quasi tutti i responsabili degli omicidi dei giovani fascisti avvenuti in quegli anni, è ancora oggi in libertà.