Raccontate
che lottava per un popolo
Raccontate
lo schianto del suo corpo
Raccontate
del sangue sul selciato
Urlate
a chi non vuol sentire
LUI
VIVE, LUI COMBATTE.
Siamo
nel maggio del 1979 e la tensione nella zona di Roma Est è piuttosto
alta a causa delle continue provocazioni perpetrate da aderenti al P.C.I. del
quartiere ai danni di militanti del Fronte della Gioventù e delle loro
sezioni. Ai primi del mese viene compiuto da questi "attivisti" comunisti un
attentato incendiario contro la sede del M.S.I.-F.d.G. di viale Somalia 5 che
viene seguito, nei giorni successivi, da numerose azioni di disturbo della normale
attività del "Fronte" condite con minacce varie ed atteggiamenti aggressivi.
In tutti questi episodi viene notata la presenza di un'automobile Fiat 850 bianca
che risulterà poi fondamentale nel seguito della vicenda.
La sera del 28 maggio, intorno alle ore 20, quattro ragazzi del F.d.G., tra
cui Francesco Cecchin, si recano in piazza Vescovio per affiggere manifesti,
ma vengono subito notati da un gruppo di militanti della sezione comunista di
via Monterotondo, che danno inizio alla sistematica copertura di tali manifesti;
un giovane cerca di impedire il proseguimento dell'azione provocatoria, ma viene
circondato da una ventina di attivisti del PCI, capeggiati da Sante Moretti
che, dopo aver allontanato in modo spiccio un agente di P.S. in borghese chiamato
ad intervenire, si rivolge ai ragazzi del Fronte con affermazioni del tono:
"...vi abbiamo fatto chiudere via Migiurtinia, vi faremo chiudere anche viale
Somalia..."; alla fine, volgendosi verso Francesco Cecchin, lo apostrofa così:
"TU STAI ATTENTO, CHE SE POI MI INCAZZO TI POTRESTI FARE MALE!".
La
stessa sera, intorno alla mezzanotte, Francesco Cecchin scende di casa insieme
alla sorella per una passeggiata fino a via Montebuono, dove un suo amico lavora
in un ristorante; verso le 24:15, mentre i due ragazzi sono fermi davanti all'edicola
di piazza Vescovio, spunta una Fiat 850 bianca che compie una brusca frenata
davanti a loro; dall'auto scende un uomo che urla all'indirizzo di Francesco:
"... E' lui, è lui, prendetelo!". Intuendo il pericolo e, probabilmente,
riconoscendo l'aggressore, Francesco fa allontanare la sorella e corre in direzione
di via Montebuono, inseguito dagli occupanti della macchina, che nel frattempo
il suo guidatore sposta fino all'imboccatura della stessa via Montebuono. La
sorella, intanto, si getta vanamente al loro inseguimento, urlando: "Francesco,
Francesco!"; le sue grida vengono udite da un giovane che, sceso in strada,
nota un uomo darsi alla fuga verso via Monterotondo e qui salire sulla Fiat
850 bianca che si allontana velocemente. Dopo aver telefonato alla Polizia,
il giovane viene raggiunto da un inquilino dello stabile di via Montebuono 5
che lo informa della presenza, sul suo terrazzo sottostante di cinque metri
il piano stradale, di un ragazzo che giace esanime al suolo; il giovane, giunto
sul posto, riconosce in quel ragazzo il suo amico Francesco Cecchin. Il corpo
è in posizione supina ad una distanza di circa un metro e mezzo dalla
base del muro; perde sangue da una tempia e dal naso e stringe ancora nella
mano sinistra un mazzo di chiavi, di cui una che spunta dalle dita è
storta, e in quella destra un pacchetto di sigarette.
A questo punto,
mentre sarebbe stato lecito attendersi immediate indagini da parte delle forze
dell'ordine, si assiste invece all'affrettarsi di tutti a liquidare l'accaduto
come un incidente. Secondo alcuni Francesco, "impaurito", avrebbe scavalcato
il muretto del cortile senza rendersi conto che al di sotto ci fosse un salto
di cinque metri. Altri hanno addirittura negato che vi fosse stata una colluttazione
tra il giovane e i suoi aggressori, come ha fatto il commissario Dott. Scalì.
Apparendo questa versione
sospetta, mentre alcuni militanti del F.d.G. vegliano Francesco in coma, altri
cominciano a fare indagini private, che portano a scoperte molto interessanti:
innanzi tutto si viene a sapere che Francesco conosceva molto bene quel palazzo
e il suo cortile, in quanto ci abita un suo amico; inoltre risulta strano che
il corpo sia stato trovato in posizione supina, anziché riversa, tipica
di chi si lancia, e senza fratture agli arti, inevitabili quando si effettua
un salto volontario da una simile altezza. L'ipotesi che Francesco sia stato
gettato di peso viene inoltre avvalorata da altri due particolari: il trauma
cranico, sintomo che il peso dell'impatto al suolo si è scaricato tutto
sulla testa, e il fatto che questa si trovi più vicina al muro rispetto
ai piedi.
La chiave piegata tra le dita
di una mano e il pacchetto di sigarette nell'altra sono una prova ulteriore
che gli aggressori hanno gettato il corpo di Francesco, già esanime,
al di là del muretto che delimita il terrazzo: chi pensa di lanciarsi
oltre un ostacolo cerca infatti di avere le mani libere.
Che prima di questo tragico
epilogo ci sia stata una colluttazione è dimostrato dalla chiave piegata
rinvenuta tra le dita di Francesco, sicuramente usata come arma di difesa contro
i suoi assassini. Anche le ferite riscontrate su tutto il corpo confermano la
tesi dell'aggressione, essendo queste di natura traumatica e riconducibili a
colpi ben assestati da persone esperte.
A rendere inconfutabili queste
tesi altri due importanti elementi: le tracce di sangue riscontrate sul pavimento
del cortile lunghe alcuni metri fino al bordo del muretto e la dichiarazione
resa da alcuni testimoni che affermano di avere udito: "LE GRIDA DI UN RAGAZZO,
POI ALCUNI ATTIMI DI SILENZIO... E INFINE UN FORTE TONFO NON ACCOMPAGNATO DA
ALCUN GRIDO". Risulta difficile credere che una persona possa gettarsi spontaneamente
giù da un muro alto cinque metri senza emettere neanche il minimo suono
vocale.
Il 16 giugno, dopo 19 giorni di
coma, Francesco muore.
Le indagini infine partirono ma
tardi e male. Stefano Marozza, militante del PCI e proprietario della famigerata
850 bianca, fu arrestato. Disse di essere andato a vedere un film al cinema
ma gli inquirenti verificarono che, quella sera, il cinema indicato da Marozza
era chiuso per turno di riposo. Ciò nonostante la potente macchina di
copertura del PCI si mise in moto e mentre le indagini proseguivano a rilento
e non ci si preoccupava di verificare chi poteva essere insieme al Marozza,
questi venne fornito di un nuovo alibi, questa volta perfetto; ogni prova ed
ogni riscontro venne fatto sparire.
Anni dopo il giudice, scrivendo la sentenza,
dovrà dichiarare che se egli non era in grado di condannare l'imputato,
se non era stato possibile fare piena luce sull'omicidio Cecchin, questo doveva
essere ascritto ai ritardi nelle indagini di quei giorni, al modo di procedere
degli investigatori, al punto che il magistrato ipotizza possibili procedimenti
nei confronti degli organi di Pubblica Sicurezza.
Ma noi non abbiamo mai perso la speranza
che sia fatta finalmente giustizia. L'importante è non dimenticare. Mai.